Il pozzo della rocca detto di San Patrizio

Uscendo dalla stazione superiore della funicolare si hanno alle spalle i bastioni della Rocca, di poco emergenti da un terrapieno che ne ha pressoché annullato l’originaria imponenza prefigurata da quelli visibili all’esterno della rupe.

Dopo la vittoria militare e diplomatica del cardinale Egidio Albornoz, i suoi capitani e i suoi vicari non si sentivano tranquilli senza strutture fortificate e, come in tutte le città sottomesse dallo Stato Pontificio, anche a Orvieto fu decisa la costruzione di una rocca addossata alla Porta Postierla o Soliana, detta poi Porta Rocca, sul limite estremo orientale della rupe. La prima fortificazione, iniziata nel 1364, fu quasi sicuramente concepita da Ugolino di Montemarte – architetto militare dell’Albornoz, la cui famiglia contile aveva possedimenti e castelli nel territorio orvietano – coadiuvato da Giordano Orsini: di forma quadrilatera, con un palazzotto contiguo alla porta e altre strutture di servizio lungo le mura, la rocca era protetta da un fossato con due ponti levatoi.

Distrutta pochi anni dopo essere stata edificata (1390) una rocca nova fu ricostruita da Antonio da Carpi sul vecchio perimetro, con l’aggiunta di un rivellino circolare (1450-1452) e completata con la supervisione di Bernardo Rossellino.

Oltre ai periodici riadattamenti di cui la fortezza necessitava a secondo delle circostanze, un evento eccezionale come il sacco di Roma del 1527 e la fuga di Clemente VII a Orvieto determinarono anche un intervento straordinario: la costruzione del pozzo.

Già nella rocca trecentesca non si era sottovalutato il problema vitale dell’approvvigionamento idrico, risolvendolo con una cisterna e un prolungamento dell’acquedotto pubblico, due sistemi che, deteriorati nel tempo, non davano più garanzie di autonomia.

Perciò Clemente VII, insieme a un pozzo e due cisterne in città, ordinò la costruzione di un altro pozzo ad uso esclusivo della rocca, e della progettazione fu incaricato Antonio da Sangallo il Giovane, l’architetto che si stava occupando delle fortificazioni della rupe e che già aveva fatto indagini metriche e sopralluoghi per localizzare le falde acquifere attraverso le fonti d’acque sorgiva che sgorgavano ai piedi del masso tufaceo.

Individuato il sito adatto vicino alla rocca, per rispondere alla pratica esigenza di trasportare l’acqua dal fondo del pozzo in superfice facendo discendere e risalire bestie da soma senza che si incontrassero, il Sangallo – memore della chiocciola del Belvedere in Vaticano – ideò una doppia gradonata elicoidale sviluppata intorno ad un cilindro profondo 53,15 metri; il doppio percorso a spirale, scavato nel tufo fin quasi a metà e poi costruito in mattoni, era aerato e illuminato dall’alto attraverso settanta finestroni. A completamento di una così artificiosa opera di architettura sotterranea, compiuta da Simone Mosca sotto Paolo III nel 1537, fu posta fuori terra una vera in mattoni coronata da un fregio coi gigli farnesiani, mentre il ricordo del papa Medici che aveva voluto il pozzo era stato affidato a una medaglia coniata da Benvenuto Cellini con la scena biblica di Mosè che trova l’acqua nel deserto e l’iscrizione UT POPOLUS BIBAT.

Detto per inciso, i lavori del pozzo assunsero anche il significato di un involontario scavo archeologico, perché in fundo putei furono trovati corredi funerari di tombe etrusche e quel precoce ritrovamento allora pressoché incomprensibile, anche se non ha dato adito a successive indagini, non desta oggi alcuna sorpresa  essendo ben visibile, a pochi metri dal pozzo, il Tempio del Belvedere, forse dedicato  a Tinia e datato alla fine del V secolo a.C. anche in base alle belle terre cotte architettoniche che lo ornavano. Quasi un prototipo del tempio etrusco-italico descritto da Vitruvio nel De Architectura, il Tempio del Belvedere fu scoperto per caso mentre si apriva la Cassia Nuova nel 1828 e definitivamente portato in luce nel 1923.

Il pozzo della rocca fu riconosciuto subito come una delle tre meraviglie di Orvieto – anello mancante tra la mole tutta naturale della rupe e quella tutta architettonica del Duomo – e divenne presto un’attrattiva per i viaggiatori, ma soltanto nell’Ottocento assunse la denominazione proverbiale di Pozzo di S. Patrizio, dopo un temporaneo uso come purgatorio di S. Patrizio favorito dai frati del vicino convento dei servi di Maria (che ben conoscevano la leggenda del patrono d’Irlanda già nota a uno dei loro padri fondatori, Filippo Benizi) quando la rocca aveva perduto la sua funzione militare e non vi erano più acquartierate truppe pontificie.

Anche i serviti si trasferirono in un altro convento, ed al pozzo, divenuto una “curiosità inutile” (Conder, 1831) rimase solo l’appellativo di S. Patrizio senza più riferimento al purgatorio, invenzione medievale che depenalizzò l’usura, e sarà addirittura visto come “un inferno in mattoni” (Symons-Gordon, 1898).

Nella rocca abbandonata, intanto, si era costruito un anfiteatro con gradinate e un ordine di palchi usato principalmente per le corse di cavalli, sistemando il resto del giardino pubblico.

(testo Arch. Alberto Satolli)

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Forse per l’aura di sacro e di magico che accompagna le cavità profonde, o per pura imitazione di modelli cinematografici, i turisti moderni vi gettano monetine con la speranza di tornarvi.


 

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